Descrizione
Don Franco, questo sarà un Natale “diverso” e che forse ci fa paura perché non potremo ritrovare quell’armonia a cui siamo abituati e che ci ricorda lo spirito di questa festa. Qual è il messaggio e l’insegnamento che possiamo trarre per viverlo comunque?
Per viverlo, possiamo trarre e coltivare proprio lo spirito e il messaggio che quest’emergenza ci lascia e che coincide anche con quello del Natale, cioè di badare all’essenziale, di ridare luce e di risvegliare i rapporti con gli altri e di abbandonare la fretta che era diventata il nostro stile. Quest’anno il Natale non cambia, viene meno forse l’aspetto consumistico o culturale che attorno alla festa si è sviluppato, ma la sua verità è la stessa.
Dai racconti, dalle testimonianze delle persone della comunità di Minerbio, qual è stata l’esperienza più difficile di questi mesi?
Sono tante le sensazioni che abbiamo sperimentato, una fra tutte è forse la difficoltà di avere in questi mesi dovuto immaginare senza potere realizzare, di avere sognato, soprattutto cose semplici, senza sapere quando saremmo tornati a farle. Non avere una scadenza o un tempo in cui saremmo potuti tornare alle cose della vita, ecco, questo ha creato e rappresentato un vuoto.
Come si può riuscire in questi casi mantenere accesa la speranza per provare a immaginare?
C’è un immagine che è diventata già Storia perchè simbolica di tutto questo tempo: il Pontefice da solo che a Marzo, in una Piazza San Pietro completamente vuota, saliva le scale verso l’altare. La Piazza era avvolta completamente dal silenzio eppure si respirava e si sentiva, addirittura dalla televisione, la presenza, l’unione fra tutti. Anche se non abbiamo potuto stare insieme, abbiamo sentito la nostra Presenza, che è diventata visibile. Anche se non potevamo nell’immediato realizzare, non eravamo soli mentre immaginavamo.
Sembra che quest’emergenza ci abbia cambiati o che abbia cambiato il nostro modo di vivere, ma è realmente così?
Ci ha segnato e ci ha insegnato tante cose, ma allo stesso tempo c’è il rischio che i valori che ci ha trasmesso non ce li portiamo anche nel futuro. Ad esempio, io in prima persona ho sperimentato l’importanza di alcuni gesti con cui ci prendiamo cura degli altri. In quei mesi abbiamo ricominciato o incominciato a chiamare gli altri, anche una telefonata voleva dire moltissimo, quasi tutto. Questo virus ci ha rivelato che siamo “scoperti”, che non siamo al sicuro da soli.
Anche quando la scienza ci permetterà di avere un vaccino e di sentirci tutelati, anche in quel momento dobbiamo sapere che scopriremo davvero in maniera equa questo vaccino solo quando sarà garantito a tutti, solo quando nessuno, specialmente i più deboli e più emarginati, sarà escluso da questo beneficio. Siamo tutti anelli della stessa catena e appunto, questa emergenza ce lo ha dimostrato.
C’è un augurio che vuole rivolgere alla comunità?
Quello di non dimenticare di accorgerci delle persone. Ognuno di noi vive qualcosa dentro, incontra delle difficoltà ed è importante in quelle difficoltà esserci, sapere avere occhi per vedere gli altri, anche quando questo sarà finito.
Per viverlo, possiamo trarre e coltivare proprio lo spirito e il messaggio che quest’emergenza ci lascia e che coincide anche con quello del Natale, cioè di badare all’essenziale, di ridare luce e di risvegliare i rapporti con gli altri e di abbandonare la fretta che era diventata il nostro stile. Quest’anno il Natale non cambia, viene meno forse l’aspetto consumistico o culturale che attorno alla festa si è sviluppato, ma la sua verità è la stessa.
Dai racconti, dalle testimonianze delle persone della comunità di Minerbio, qual è stata l’esperienza più difficile di questi mesi?
Sono tante le sensazioni che abbiamo sperimentato, una fra tutte è forse la difficoltà di avere in questi mesi dovuto immaginare senza potere realizzare, di avere sognato, soprattutto cose semplici, senza sapere quando saremmo tornati a farle. Non avere una scadenza o un tempo in cui saremmo potuti tornare alle cose della vita, ecco, questo ha creato e rappresentato un vuoto.
Come si può riuscire in questi casi mantenere accesa la speranza per provare a immaginare?
C’è un immagine che è diventata già Storia perchè simbolica di tutto questo tempo: il Pontefice da solo che a Marzo, in una Piazza San Pietro completamente vuota, saliva le scale verso l’altare. La Piazza era avvolta completamente dal silenzio eppure si respirava e si sentiva, addirittura dalla televisione, la presenza, l’unione fra tutti. Anche se non abbiamo potuto stare insieme, abbiamo sentito la nostra Presenza, che è diventata visibile. Anche se non potevamo nell’immediato realizzare, non eravamo soli mentre immaginavamo.
Sembra che quest’emergenza ci abbia cambiati o che abbia cambiato il nostro modo di vivere, ma è realmente così?
Ci ha segnato e ci ha insegnato tante cose, ma allo stesso tempo c’è il rischio che i valori che ci ha trasmesso non ce li portiamo anche nel futuro. Ad esempio, io in prima persona ho sperimentato l’importanza di alcuni gesti con cui ci prendiamo cura degli altri. In quei mesi abbiamo ricominciato o incominciato a chiamare gli altri, anche una telefonata voleva dire moltissimo, quasi tutto. Questo virus ci ha rivelato che siamo “scoperti”, che non siamo al sicuro da soli.
Anche quando la scienza ci permetterà di avere un vaccino e di sentirci tutelati, anche in quel momento dobbiamo sapere che scopriremo davvero in maniera equa questo vaccino solo quando sarà garantito a tutti, solo quando nessuno, specialmente i più deboli e più emarginati, sarà escluso da questo beneficio. Siamo tutti anelli della stessa catena e appunto, questa emergenza ce lo ha dimostrato.
C’è un augurio che vuole rivolgere alla comunità?
Quello di non dimenticare di accorgerci delle persone. Ognuno di noi vive qualcosa dentro, incontra delle difficoltà ed è importante in quelle difficoltà esserci, sapere avere occhi per vedere gli altri, anche quando questo sarà finito.
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Ultimo aggiornamento pagina: 31/12/2020 14:07:51